12° EDIZIONE CONCORSO LETTERARIO NAZIONALE – ONDA D’ARTE 2017

Fiorella Borin con l’Assessore a Cultura e Turismo del Comune di Ceriale Marinella Fasano

Con il racconto “Natale a Vilnius“, la scrittrice Fiorella Borin di Venezia si è aggiudicata la 12° edizione del Concorso Letterario “Onda d’arte”, con la seguente motivazione: la scrittrice riesce, con pochi e semplici tratti, a dipingere il drammatico scenario della Campagna di Russia, senza mai scinderlo da un messaggio di pace e fratellanza che, dapprima trattenuto, esplode nel finale, imbibendo la vicenda fino a contagiare inesorabilmente il lettore.

Natale a Vilnius

Durante la notte sul villaggio era caduta abbondante la neve.
La vidi dal letto appena mi svegliai; sul davanzale si era posato un soffice cuscino bianco e anche il tetto della stalla ne era gonfio.
Mi vestii e discesi in fretta la scala di legno.
La cucina, come spesso accadeva, era avvolta nel fumo e Teta-Tonka china sul fuoco soffiava in una lunga canna di ferro.
Dal tubo l’aria usciva come da un mantice; i tizzoni si ravvivavano un attimo, sembravano ardere, ma appena la donna si ritraeva senza fiato, rossa in viso, leggermente ansimante, il fuoco languiva e un denso fumo si sprigionava.
Provai compassione per lei. «Lascia, faccio io» dissi, accostandomi e togliendole il tubo dalle mani.
«Spassibo, italianski» grazie, italiano, rispose Teta-Tonka, che delle mie parole aveva intuito il significato.
Mi accoccolai davanti alla stufa che troneggiava al centro della stanza, e cominciai a soffiare per ravvivare la fiamma. I polmoni mi bruciavano per lo sforzo, gli occhi mi lacrimavano, ma alla fine l’impegno del baldo ufficiale del regio esercito italiano ebbe la meglio sulla riottosità dei ciocchi lituani.
Però c’era ugualmente qualcosa che non andava.
«Forse un uccello morto ostruisce il camino» le dissi, mimando il volo di un uccello che poi si afflosciava sfinito sul pavimento.
Lei rise. Ringiovanì, nella risata. Si rincalzò il fazzoletto sulla fronte e sulla nuca e fece per indossare il cappotto.
«No, vado io». Mi sembrava il minimo. Da una settimana alloggiavo nella sua isba alla periferia di Vilnius e quella povera donna mi aveva coperto di gentilezze. Anche troppe, tenuto conto del fatto che noi eravamo gli invasori.
Eppure, quando la sera veniva a portarmi la ciotola con la zuppa, nel modo in cui curvava il busto per servirmi, non c’era ostilità, bensì preoccupazione, come se temesse di scontentarmi.
«Harasciò, harasciò» ottimo, ripetevo io, fingendo di assaporare ogni sorsata come se fosse l’ambrosia degli dei. Era solo calda, invece. Acquosa e poco saporita, ma di certo superiore alla sboba che ci mettevano nelle gavette i nostri cucinieri. E ben diversa dalla pasta al burro condita con abbondante parmigiano che gli stessi cucinieri preparavano per sé, di nascosto, come grassi ladri.
Teta-Tonka mi aiutò ad abbottonare la giacca e a infilare gli stivali, mi porse la bustina e la sciarpa; e come sempre scosse la testa, indicando con il mento le mie orecchie. Era quasi sicura che un giorno o l’altro me le sarei congelate e, premurosa come una madre, si raccomandava che me le strofinassi subito con la neve, qualora le avessi sentite bruciare, perché era un metodo efficace per contrastare il congelamento. Una volta, mentre la aiutavo ad aggiustare la porta della stalla, si chinò a raccogliere una manciata di neve e me la strofinò sul naso, all’improvviso. Pensai a uno scherzo. Invece si era accorta che mi si stava congelando la punta del naso, e aveva provveduto a salvarmela.
Aprii la porta del vestibolo, la richiusi e mi infilai il cappotto. Tirai il fiato, perché sapevo che al di là della seconda porta avrei fatto un tuffo nel gelo. La aprii con cautela. Aveva smesso di nevicare ma il cielo era grigio piombo, come sempre. Da quando eravamo entrati in territorio sovietico, avevo dimenticato i colori.
Mi mancavano i cieli d’Italia, così generosi di albe e tramonti, così vivaci di turchino e di nuvole a forma di strani animali, mi mancavano le labbra rosse delle ragazze che avevo baciato prima che la guerra mi vendesse un tanto al chilo come carne da macello. In qualità di ufficiale, avevo avuto i miei privilegi: per esempio, quello di poter pernottare in un’isba anziché in una scuola semidistrutta dai bombardamenti, com’era toccato ai miei fanti.
Spalancai la porta e uscii fuori. Feci pochi passi per guardare il camino, ma subito due figure che avanzavano verso di me attrassero la mia attenzione.
Per quanto fosse difficilmente decifrabile, il colore dei loro pastrani li qualificava per miei compatrioti: ma erano insolitamente corti… Guardando meglio, ne compresi il motivo. Ne avevano ritagliato l’orlo per farsi una specie di sciarpa che tenevano arrotolata intorno alla testa e al collo. Non avevano né elmetto né moschetto; per proteggersi le mani dal freddo, se le erano bendate con altre strisce del cappotto. Non avevano scarpe: ai piedi portavano patetiche calzature che avevano per suola una tavoletta di legno ricoperta con un po’ di paglia, agganciata alla caviglia da altre strisce di stoffa del pastrano, e assemblata con del fil di ferro.
Quando furono a un paio di metri da me, si misero sull’attenti.
Erano senza dubbio italiani.
Da quando ero salito sulla tradotta che mi aveva portato sul fronte orientale, nessun soldato tedesco aveva fatto il saluto militare al mio passaggio, tanto da convincermi che avessero ricevuto l’ordine di non salutare mai nessun ufficiale italiano.
Li guardai. Erano proprio malridotti.
«Comodi, ragazzi, state comodi.»
«Dove siamo, signor capitano?» domandò il più basso. Aveva l’aria smarrita, il volto ancora infantile deformato dagli stenti.
«Siamo a Vilnius, in Lituania» risposi, meravigliandomi di quella domanda. Possibile che non lo sapessero?
«E che giorno è oggi?» domandò l’altro.
«Il 24 dicembre 1942» risposi.
Il piccolo cadde in ginocchio.
«Dio mio… la vigilia di Natale…» e scoppiò in lacrime. Vedevo le sue spalle sussultare penosamente. E a nulla valeva che il commilitone gli mormorasse all’orecchio parole di conforto in un dialetto così gutturale da farmi pensare che venissero non da una regione italiana, ma addirittura da un altro pianeta.
«Che cosa vi è successo?» domandai.
«Siamo stati catturati dai russi sul Don, signor capitano» rispose quello alto. «Ci hanno tolto le armi, le scarpe, i soldi, gli orologi, le penne stilografiche, la bussola, la catenina con la medaglietta di sant’Antonio che portavamo al collo…» Si interruppe. Deglutì, cercò di farsi forza e poi anche lui si mise a piangere.
«Ci hanno fatto marciare per giorni e giorni nella neve…» proseguì quello basso, cercando penosamente di rimettersi in piedi. Ma era troppo debole. Crollò un’altra volta sulle ginocchia. «Senza mangiare, senza bere… tiravamo su qualche manciata di neve e ce la portavamo alla bocca… ma se ci attardavamo, anche solo per fare… con decenza parlando…» Scosse con rabbia la testa. «Ecco, neanche quello potevamo fare, perché ci colpivano col calcio della mitraglietta, e se cadevi e non riuscivi a rialzarti subito, ti finivano con una pallottola nella nuca… E bevevano, si attaccavano alla fiaschetta di vodka e bevevano sempre… Quando erano ubriachi fradici, cominciavano a ridere e a sparare raffiche a casaccio su di noi, solo per allegria…»
«Venite dentro.»
«Chi c’è nell’isba?» domandò quello alto. Sembrava spaventato.
«C’è solo una donna, la vecchia e brava Teta-Tonka.»
Si scambiarono un’occhiata carica di apprensione.
«Possiamo fidarci, signor capitano?»
«Siamo sicuri che non sia la madre, la nonna, la zia di qualcuno di quelli che ci sparavano addosso solo per fare festa? Solo perché la vodka rende euforici e allora ti senti Dio, e diventi padrone della vita di tutti quelli che camminano in colonna, a piedi nudi nella neve…»
Era troppo anche per me. Un nodo mi chiudeva la gola.
«Come siete riusciti a scappare?»
«Dopo giorni e giorni di marcia arrivammo finalmente a una stazione. C’era un treno merci, ci fecero salire lì dentro, stavano per chiudere i catenacci quando un aereo tedesco ci sorvolò e sganciò qualche bomba… che fece saltare il binario… Approfittammo della confusione per svignarcela… Eravamo in sei…» Si morse il labbro. «I quattro che erano con noi non ce l’hanno fatta.»
«Uno era mio fratello» disse quello alto. «Si chiamava Giovanni, come il nonno. Aveva appena compiuto vent’anni. E adesso chi glielo dice alla mamma che è morto?»
Non sapevo cosa rispondere.
In quel momento smisi di essere un ufficiale. Mi scoprii semplicemente uomo.
Sentivo che dentro di me qualcosa si era spezzato, lì, sulla neve che imbiancava la Lituania, lì, davanti a quei giovani ridotti pelle e ossa, con le pezze ai piedi, le pezze alle mani e le pezze arrotolate intorno alla testa.
Li abbracciai, mescolai le mie lacrime al loro pianto di ragazzi troppo giovani per morire, troppo giovani per sopportare ciò che avevano visto e patito.
«Maledetta guerra!» dissi, e gridai. «Maledetto sia Hitler! E Mussolini! E Churchill, Roosevelt e Stalin! Tutti, maledetti tutti voi che avete collaborato a costruire questo inferno!»
Udii il rumore della porta che si apriva alle mie spalle. Mi voltai. Ne era uscita Teta-Tonka, infagottata nei suoi stracci, con lo scialle sulla testa e nelle mani due ciotole di zuppa fumante.
Veniva verso di noi col suo dono di riconciliazione e accoglienza anche per gli uomini che sarebbero dovuti esserle nemici. Li guardava con tenerezza.
«Dòbroe utro» buongiorno, mormorò con un sorriso, allungando le ciotole verso di loro. Mentre i due si avventavano sul cibo, disse «Druzya», amici, e posò una carezza sulle loro teste.
Mi passai la manica sugli occhi, prima che le lacrime si congelassero sulle ciglia. «Venite dentro, ragazzi, la stufa è accesa, è Natale.»
Quando entrammo, la stanza era ancora piena di fumo. Ma al centro della tavola brillava il dono che Teta-Tonka aveva preparato per me: qualche rametto di pino inargentato con la polvere di mica, e una candela accesa davanti all’icona che raffigurava la Vergine con il Bambino in braccio. Nell’isba c’era la stessa povertà della capanna in cui Gesù era nato, ma tutto era tiepido e quieto e buono.
Mi feci il segno della Croce. Era veramente Natale.

Fiorella Borin con Mario Mesiano, che ha condotto la serata

Il Gruppo Culturale Fucur di Torino ha delibetato di conferire una menzione speciale a Elso Avalle di Alessandria, per il racconto “Le meringhe di Zia Antonia“.

Le meringhe di zia Antonia

Durante la notte sul villaggio era caduta abbondante la neve.
La vidi dal letto appena mi svegliai; sul davanzale si era posato un soffice cuscino bianco e anche il tetto della stalla ne era gonfio.
Mi vestii e discesi in fretta la scala di legno.
La cucina, come spesso accadeva, era avvolta nel fumo e Teta-Tonka china sul fuoco soffiava in una lunga canna di ferro.
Dal tubo l’aria usciva come da un mantice; i tizzoni si ravvivavano un attimo, sembravano ardere, ma appena la donna si ritraeva senza fiato, rossa in viso, leggermente ansimante, il fuoco languiva e un denso fumo si sprigionava.
La scuola era già iniziata da due mesi, ma per me quello era il primo giorno.
Dalla nostra casa alla scuola, per la strada normale, ci sono tre chilometri.
Molto utilizzato è il sentiero che scendendo la collina, attraversa un prato e, in poche centinaia di metri, sale al paese in linea d’aria. Le donne lo percorrono la domenica per andare a messa e fare la spesa per la settimana. I bambini tutti i giorni per andare a scuola. Con il bel tempo è una passeggiata mentre il percorso diventa più complicato con la pioggia o la neve. I genitori non hanno tempo di accompagnare i figli a scuola. Lo fanno solo in rarissime occasioni come il primo giorno della prima elementare, oppure la mattina successiva ad una abbondante nevicata. In questa occasione, il padre di uno dei ragazzi si carica sulle spalle le cartelle dei più piccoli e, trascinando gli scarponi nella neve fresca, traccia la strada. Lo seguono i più grandicelli e via via i più piccoli che si trovano così il sentiero battuto…
Comincia con qualche difficoltà la mia carriera scolastica. Mentre zia Antonia mi prepara il caffelatte mi annuncia che sarà lo zio Van a battermi il sentiero. La maestra già l’ho conosciuta appena tornato dall’ospedale.
Poco più che ragazzina, zia Antonia, diventò la moglie istriana dello zio Van, geometra che a Pola aveva fatto una piccola fortuna sovraintendendo alla costruzione di edifici pubblici nel ventennio fascista.
Quando vennero tempi bui per gli italiani in quella regione, zio Van e la moglie furono costretti ad abbandonare casa e attività. Trascorsero mesi terribili in una caserma di Tortona, adibita a campo profughi.
Lo zio Van, orgogliosamente, avrebbe voluto risalire la china con le sue forze e non si fece vivo con i parenti. Fu mia mamma, che non ricevendo riscontri all’indirizzo di Pola cercò il fratello. Io ero appena nato quando vennero a far parte della nostra famiglia che non navigava certo in acque tranquille. Io ero il quinto figlio. I miei quattro fratelli erano nati tra il 1938 e il ‘42. Dopo dieci anni di pausa, i miei genitori pensarono di festeggiare la fine della guerra mettendomi al mondo.
Papà continuava a lavorare la terra e allo zio Van, con tutto quel che c’era da ricostruire, il lavoro non mancava. Non certo lavoro da progettista, ma da muratore. Cominciò ad avviare all’edilizia anche i miei fratelli più grandi. La mamma e zia Antonia, oltre ai lavori di casa, badavano alla stalla, al pollaio e all’orto.
Per qualche anno tutto sembrava procedere bene, poi la mamma si ammalò e venne ricoverata in un ospedale lontano. Poco dopo, anche a me toccò la stessa sorte.
Varcando la soglia del preventorio fui impressionato dall’altezza delle porte che si affacciavano nell’atrio. Durante il lungo viaggio sui quattro treni che avevamo cambiato per arrivare lì, la zia Antonia mi diceva che vi avrei incontrato tanti amichetti, era un preventorio riservato solo ai bambini.
Ma quella non era una casa a misura di bambino.
Una signora in camice bianco ci indicò il corridoio in fondo al quale avremmo trovato la direttrice che ci aspettava.
Passando davanti a qualche porta sentivo bimbi che piangevano.
La zia, pensando di prevenirmi, disse: «Vedi questi bimbi piangono perché stanno cambiando i dentini da latte».
«Non è proprio vero!» – risposi indispettito – «Piangono perché non vogliono stare qui!»
La mia affermazione è stata più che mai determinata e non lasciava spazio ad altre interpretazioni. La zia fece ancora un timido tentativo per difendere la sua tesi, ma piuttosto che convincermi, mi vedeva sempre più sicuro della mia idea.
Avevo solo cinque anni, ed ero turbato dal pensiero di rimanere in quell’ambiente sconosciuto, freddo, ospedaliero e privo di calore familiare.
Da quel che avevo potuto capire, avrei dovuto vivere lì da solo, per almeno un anno, come fossi già grande ed indipendente.
Non c’era la mamma a consolarmi ed a rassicurarmi. Lei, già da tempo era ricoverata in un altro sanatorio. Io chiedevo come mai non potevamo stare insieme nello stesso ospedale, ma sembrava necessario tenere divisi gli adulti dai bambini.
Il distacco dalla mamma era già avvenuto prima, ora mi separavano anche dal resto della mia numerosa famiglia: mio padre, i miei quattro fratelli, la zia Antonia e lo zio Van.
La zia Antonia sollevava la mamma dalle fatiche che noi cinque figli le procuravamo. Poi, quando la mamma si assentava, sempre per ragioni di salute, la zia prendeva il suo posto e la sostituiva in tutto, per me, per i miei fratelli e per i due uomini di casa.
Tornando al primo giorno di distacco dalla mia famiglia, la zia mi aveva lasciato in una condizione di tristezza e solitudine che raramente la compagnia dell’assistente e degli altri bimbi, riuscivano ad alleviare. Ogni quindici giorni ricevevo la visita dei miei familiari, che alternandosi venivano da me alla domenica. A turno veniva la zia, il papà, lo zio Van e qualche volta i miei due fratelli più grandi, Franco e Gigino. Quando arrivavano mi scoppiava il cuore dalla gioia. Nello stesso giorno provavo l’emozione del loro arrivo e l’emozione della loro partenza. Praticamente avevo le lacrime agli occhi di commozione quando li vedevo arrivare, e di tristezza quando mi salutavano per lasciarmi.
Ricordo una loro frase ricorrente:
«Allora noi andiamo… o vado… La prossima volta verrà …» e mi annunciavano chi sarebbe venuto due domeniche dopo. Da quel momento avrei voluto che sparissero per non provare lo sconforto vedendoli percorrere quel triste corridoio verso l’uscita.
Le visite più frequenti le ricevevo dalla zia Antonia che mi sapeva consolare e rassicurare. A lei ero molto affezionato, ero felice di vedere tutti, ma la sua presenza, per me, era diventata una necessità. Dopo la sua visita mi sentivo più forte e sicuro, mentre, dopo la visita degli altri miei familiari, alla solitudine si sommava il timore di non guarire. Mi sembrava che gli altri non mi trattassero da bambino, ma come una persona già grande, in grado di farcela da solo.
Una domenica lo zio Van era arrivato con una valigia piena di meringhe preparate dalla zia e che avremmo dovuto offrire anche agli altri bambini. Quel giorno ero rimasto a letto, mi sentivo particolarmente giù di tono. Non solo non ho voluto invitare gli altri bambini, ma ero intrattabile e avrei voluto che quel giorno fosse venuta la zia. Il povero zio non era riuscito a smuovermi di una virgola e se ne era andato quasi offeso senza riuscire a sollevarmi il morale.
Non sempre ero così scorbutico, ma quando avevo la luna storta, per sopportarmi ci voleva tanta pazienza.
Un sabato pomeriggio, a sorpresa, l’assistente mi invitò ad uscire in giardino. Seduta sulla panchina del vialetto c’era la zia Antonia e una signora molto distinta. Sorrisero non appena mi videro comparire sui gradini dell’ingresso. Io sono corso in braccio alla zia. Mentre mi coccolava e mi parlava, guardavo attentamente quella signora che mi sorrideva con un’espressione dolcissima.
Ero affascinato dalla sua bellezza e, mentre mi diceva “ciao”, mi invitava ad abbracciarla. Non l’avevo ancora riconosciuta. Dopo qualche attimo di esitazione, la zia mi chiese sorridendo: «Ma davvero non conosci questa signora? È la tua mamma!»
In quell’attimo ho provato una gioia così grande come avessi avuto tutto il mondo nelle mie mani, ed ho sentito quel calore che soltanto lei poteva darmi.
La mamma era molto ingrassata rispetto all’ultima volta che l’avevo vista a casa. La ricordavo magrissima, con il viso scavato e sofferente. Ora la vedevo proprio bella, serena, vestita con un’eleganza che mai avrei immaginato. Ero tanto felice di stare con lei che non mi importava più niente di quello che succedeva intorno.
Prima di salutarmi mi ha detto: «Nei prossimi giorni tu andrai a casa, mentre io rimarrò ancora qualche tempo in sanatorio e poi, finalmente, staremo insieme nella nostra casa».
Nella casa di cura aveva conosciuto Emma con cui era diventata amica. Era lei che le regalava gli abiti eleganti. Si volevano bene e sono rimaste amiche anche dopo aver lasciato il sanatorio. Emma veniva a trovare la mamma e ogni volta era una festa.
Nonostante si sia risolta bene la malattia sia per me che per la mamma, il periodo del sanatorio per me è stato molto difficile. Quei lunghi mesi di silenzio e di solitudine mi hanno lasciato un vuoto dentro che non sono più riuscito a colmare del tutto.
Al mio ritorno a casa ritrovai i miei compagni di giochi di un anno prima. Una breve visita. Ero completamente guarito, ma i genitori per precauzione non permettevano loro di stare con me.
In un anno di lontananza dal paese, avevo completamente dimenticato il dialetto, suscitando la curiosità dei miei amichetti che l’italiano non lo parlavano ancora.
Oggi li avrei rivisti a scuola. Finalmente avevo terminato questa stupida ed inutile quarantena. In due mesi chissà se avranno già imparato l’italiano.

Daniela Bruzzone legge alcuni brani del racconto vincitore

CLASSIFICA

Pos. Titolo racconto
1 NATALE A VILNIUS
2 DOPO LA NEVE
3 HEHAKA
4 LA STRADA NELLA NEVE
5 LA NEVICATA DEL 1996
5 FUORI TEMPO
7 LE MERINGHE DI ZIA ANTONIA
7 LA CASA DI TETA-TONKA
7 ERA VENUTA DALL’EST
10 L’ULTIMO
10 VENUTA DA LONTANO
12 IL GRIZZLY LA GUERRA E L’ONTARIO
12 UNA PICCOLA FARFALLA
14 IL VECCHIO
14 PREDONI DI SOGNI
16 FORSE PORTERA’ IL MIO NOME
16 LE FAVE DI TONKA
16 UNA VACANZA STRAORDINARIA
19 CIO’ CHE LA NEVE NON COPRE
19 LE BABBUCCE ROSSE
19 LO STRANO ECO DEL CUORE
19 MA NOI VENIAMO DA LA’!
23 C’ERA UNA DIFFERENZA
23 EDUCAZIONE ASENTIMENTALE DI MIA FIGLIA
23 I PROFUMI QUELLI DEI FIORI, DELLE RESINE DEGLI….
23 IL BAR RISTORO “BRIGATA”
23 IL LUNGO VIAGGIO DI RITORNO
23 NEVE ALL’ALBA
29 IN PACE CON SE STESSO
29 TERRE MALEDETTE
31 IL PAESE PIU’ BELLO DEL MONDO
31 INARRESTABILE FLUIRE
31 MATRIMONIO IN INVERNO
31 NEVE DI LUNA
31 PANE AL PANE
36 IL DONO DI TENKA
36 LA TANA DI COMARE LISIZA
38 GIORNATA SULLA NEVE
38 LA DIMORA DEGLI DEI
38 LA PAROLA PER RINGRAZIARE
38 RITORNO
38 SE LA NEVE TI FREGA
38 TERRE MALEDETTE
38 UN INASPETTATO TESORO
45 LA SCALA DI LEGNO
45 TONKA NUMERO 8
47 PIAZZA PULITA
48 SCIOGLIERSI
48 TETA-TONKA
50 IL SOLDATO DELL’AMORE
50 LA GIOSTRA
50 SEMBRAVA UN INCUBO
53 I DUE MAESTRI
53 IL CACCIATORE
53 PIC
56 LITTLE CITY OF ROCKS
56 NON SONO NESSUNO
56 PASSAGGI NELLA NEBBIA
56 TETA-TONKA DANZA CON IL VENTO
56 VITA IN UNA CORNICE
61 OGNI COSA A SUO TEMPO
62 IL TRENO
63 TI PORTO NEL CUORE
63 UN AMORE FRA LA NEVE E IL SOLE
65 IL LAGO INCANTATO
65 L’ULTIMA BAITA DELLA CARNIA
67 AD OGNI COSTO
67 IL DESTINO
67 LA RABBIA
70 C’ERA UNA VOLTA
70 UNA BRUTTA ESPERIENZA
72 UNA, NESSUNA, CENTOMILA STRADE DI CASA
73 ALLA SCOPERTA DEL MARE
73 LA MINGHINA
75 LA VOLPE A DUE ZAMPE
75 NEVE, NEVE!
77 IL RACCONTO DI TETA-TONKA
78 I PASSI DI UN MOMENTO DI SILENZIO
78 IL CASO DI TETA INNAMORATA
80 IN ATTESA DI TE
81 IL BINOMIO CONSOLIDATO…
81 OBLAZIONE
83 STORIA DI UN VILLAGGIO DI MONTAGNA
83 UNA NOTTE DI… FUOCO
85 FIGLI DI DIO
86 RACCONTO
87 IL CASTELLO DEL PIRATA

Fiorella Borin con Alessandro Salvi, della Comunità degli Italiani “Pino Budicin” di Rovigno

REGOLAMENTO E SCHEDA DI PARTECIPAZIONE

Regolamento Concorso Letterario 2017

Scheda di partecipazione 2017