10° EDIZIONE CONCORSO LETTERARIO NAZIONALE – ONDA D’ARTE 2015

1° CLASSIFICATO – SOTTO IL SOLE DI GIUGNO, Benedetto Mortola di Camogli (Ge)

Il primo ad arrivare fu l’ospite meno atteso. Il maestrale si presentò con un giorno di anticipo, senza preavviso e senza regalo. Ninella lo aveva sentito dal letto ed era rimasta immobile, attonita. Un po’ come quando ti svegli e senti che ti è venuta la febbre.

Teneva gli occhi chiusi e continuava a pensare che il mattino è il momento più grigio del giorno.

Respirava lentamente, ma dentro avrebbe voluto urlare.

Aprì gli occhi.

Quando finalmente mise a fuoco qualcosa, i suoi occhi stavano guardando la sua bambola seduta sulla poltroncina di raso giallo accanto al suo letto. Era la bambola che le aveva regalato lo Zio Franco quando era venuto a trovarli da Udine. Tanto tempo fa.

Indugiò sulla bambola, sul vestitino che aveva cucito sua mamma, su quegli occhi di vetro colorato spalancati che ora sembravano guardarla dentro.

Era la sua bambola. L’unica che avesse mai avuto. Le voleva ancora

bene. Anche se adesso non era più una bambina. Ormai aveva quasi diciannove anni.

Ad un tratto capì che era il momento di alzarsi e di correre fuori.

Giugno aveva invaso le strade della piccola città. Era una bella giornata di sole. Uno dei primi giorni di quell’estate del 1940. Sembrava un giorno come tanti, ma la guerra era cominciata. Da poco, ma era cominciata.

Ninella si era messa il vestito a fiori, l’ultimo che si era comprata, il più bello che aveva.

Arrivò alla stazione dei treni correndo.

C’era poca gente. Si guardò intorno. Camminò lungo i binari. Tornò indietro. Mentre passava accanto a due uomini fermi a parlare tra loro, sentì le loro voci chetarsi all’improvviso. Sentì i loro occhi che la seguivano da dietro. Una lunga, strana sensazione di un disagio diffuso che cominciò a circolarle dentro e a non lasciarla in pace.

Ninella non si fermò. Seguitò a camminare. Era lì per Giorgio. Di tutto il resto del Mondo non le importava niente. Lo avrebbe aspettato anche tutto il giorno. Sapeva che doveva partire quella mattina.

Verso le nove e mezza la stazione era piena di gente. Era arrivato un treno e un altro stava partendo.

Vide i ragazzi in divisa. E madri, padri, fidanzate, qualche bambino.

Il sole di giugno splendeva sui saluti, le parole, gli abbracci, le domande, le risposte, le lacrime, i sorrisi…

Vide Giorgio. Lo vide subito. Da lontano. Inconfondibile con quel suo passo un po’ ciondolante. Solo. Con lo zaino sulle spalle. Bello.

Giorgio.

Lo restò a guardare mentre lui si mescolava alla gente ferma davanti al binario. Lo vide accendersi una sigaretta e tirare la prima boccata.

Lei era poco dietro uno dei pilastri, dove sopra c’era scritto il nome della città.

Lo guardò mentre lui passeggiava nervoso, posava lo zaino sul marciapiede, fumò altre due sigarette.

Poi arrivò il treno.

Il suo fischio prolungato si allargò sulla stazione.

I ragazzi si mossero quasi tutti insieme. Gli abbracci si fecero più forti, le lacrime che non erano ancora arrivate, scesero in quel pugno di minuti. I sorrisi diventarono più intensi.

Gli zaini sul treno, i soldati sul treno.

Anche Giorgio si mosse, buttò la cicca e si avviò verso la porta spalancata della carrozza più vicina.

Il fischio del treno si allargò di nuovo nell’aria e Ninella adesso sentì che qualcosa si rompeva dentro di lei e precipitava chissà dove.

Anche Ninella si mosse. Uscì da dietro la colonna e andò verso di lui. Giorgio era fermo dietro altri suoi commilitoni, in attesa di salire.

Lei trovò il coraggio di toccargli la spalla e farlo voltare.

Giorgio così si trovò improvvisamente di fronte quella bellissima ragazza dagli occhi color nocciola e dai capelli neri che vedeva quasi tutti i giorni quando ritornava dall’officina, dove aveva lavorato fino ad una settimana prima come apprendista.

Si guardarono negli occhi. Ognuno dei due cercava di capire. Anche se non c’era molto da capire.

Il treno fischiò ancora.

La porta della carrozza ora era libera. Giorgio poteva salire.

Ma Giorgio non salì. Si spinse da una parte in mezzo alla calca e lasciò salire un altro. Intanto guardava Ninella. Lasciò salire un altro e un altro ancora.

Poi loro due si abbracciarono. In silenzio. E ci fu qualcosa che aveva il sapore forte e misterioso di un bacio.

Quando si separarono, Giorgio fu inghiottito dai suoi compagni e salì sul treno guardando verso Ninella che era immobile sul marciapiede, nel suo vestito a fiori.

Il fischio della locomotiva.

Il treno si mosse.

Giorgio spuntò da un finestrino. Agitò forte la mano e l’ultima cosa che lei vide fu la mano di Giorgio che la salutava per sparire sempre più lontano.

Ninella ritornò a casa triste. Anche se sapeva che la guerra sarebbe finita presto. Sì. La guerra finiva presto perché avremmo vinto subito. Lo dicevano tutti. Giorgio sarebbe ritornato e si sarebbero sposati.

Oggi, il primo ad arrivare è stato l’ospite meno atteso. Il maestrale si è presentato con un giorno di anticipo, senza preavviso e senza regalo. Ninella lo ha sentito dal letto ed è rimasta immobile, attonita. Un po’ come quando ti svegli e senti che ti è venuta la febbre.

L’estate è cominciata solo da qualche giorno.

Lei non ha dormito quasi tutta la notte. Guarda il cellulare con i numeri grandi sui tasti che è posato sul comodino, accanto al suo letto. Respira lentamente.

Chiude gli occhi e, all’improvviso, rivede Giorgio dentro il sole di quella mattina di giugno, quando era partito per la guerra.

Sono passati tanti anni, ma lei non lo ha mai dimenticato.

Per un attimo risente quel piccolo bacio alla stazione. Il fischio del treno. Il rumore triste dei suoi passi mentre ritornava a casa. La stessa casa dove abita ancora oggi.

La guerra non era finita presto. Non avevamo vinto. Giorgio non era mai più tornato. Non si era saputo più niente di lui. Avevano scritto: disperso.

Ninella riapre gli occhi e capisce che è l’ora di alzarsi e di uscire.

È in ritardo. Fuori, il sole di giugno ha già invaso tutte le strade. Deve correre in stazione. Non trova il vestito a fiori e allora si mette la prima cosa che trova. Ci mette tanto a vestirsi. Tanto. Fa fatica. Le fa male un ginocchio per l’artrosi e anche la schiena sta diventando un grosso problema. È diventata lenta. Lentissima. Guarda il cellulare con i numeri grandi sul comodino. Potrebbe chiamare Olga, la badante ucraina, ma oggi è il suo giorno libero. Non vuole disturbarla. E vuole andare in stazione.

Passa tanto tempo.

Quando è pronta, Ninella va verso la porta.

Non arriva neppure alla maniglia.

Mentre cade all’indietro sul pavimento, sta correndo dentro il suo vestito a fiori. Sotto il sole di un’estate di tanti anni prima.

L’ultima cosa che vede non è più il soffitto alto, altissimo, lontanissimo, della sua casa.

L’ultima cosa che vede è la mano di Giorgio che la saluta dal treno e che si fa sempre più vicina.

2° CLASSIFICATO – NINELLA E IL MAESTRALE, Giovani Barlocco di Genova

“Il primo ad arrivare fu l’ospite meno atteso. Il maestrale si presentò con un giorno di anticipo, senza preavviso e senza regalo. Ninella lo aveva sentito dal letto ed era rimasta immobile, attonita. Un po’ come quando ti svegli e senti che ti è venuta la febbre”.

Accidenti, però! Che cavolo di compleanno!

Il maestrale avrebbe soffiato per tre giorni almeno, e avrebbe vuotato la spiaggia. La gente non sarebbe arrivata, sarebbe rimasta in città o, al più, rintanata nelle casette di vacanza della pineta, e nessuno sarebbe stato attento ai rumori insoliti.

Figurarsi! Il maestrale sembra nato apposta per fare chiasso, per agitare tutti e tutto: i cavalloni che si inseguono galoppando e schiumando fin sulla battigia; le incaute imposte vagabonde sui loro cardini; le bandiere saldamente ancorate che si dibattono ferocemente per conquistare la libertà, perché arrivato lui, il maestrale, si montano la testa e non si accontentano più semplicemente di sventolare o garrire (come le rondini, che è già un bel vivere) ma smaniano per andargli dietro ed esprimono tutto il loro disappunto per l’immobilità tetragona dell’asta con sonori flap flap flap.

Il maestrale, insomma, si sarebbe preso la scena,

Sarebbe stato impossibile trovare qualcuno intento a passeggiare, la sera o la notte, sulla sabbia, e nessuno, in pineta, avrebbe badato a uno scricchiolio tra i tanti.

E Ninella, soprattutto, era troppo leggera per andarsene a spasso con quel ventaccio che le avrebbe stracciato le vesti, facendole fare la stessa fine veloce di un cirro.

Lei aveva già ottimi motivi per detestarlo quel soffio potente, chiassoso e incurante, che non si limitava a mormorare con discrezione, ma profittava di ogni corda tesa per farne un concerto d’archi, di ogni oggetto tubolare per trasformarlo nella canna di un organo, e si inventava percussioni e strumenti a fiato inimmaginabili, con cui dava vita a diaboliche sinfonie.

E tuttavia, Ninella doveva ammetterlo: in fondo in fondo, molto in fondo, quella energia, quel roboante talento musicale, non riuscivano a dispiacerle del tutto; lei era ancora una ragazzina, in fin dei conti, e il maestrale riusciva anche a fare parecchie cose buffe.

Soltanto che Ninella era femminile e minuta, non sarebbe durata un secondo se avesse provato a lasciarsi coinvolgere in una danza anarchica e selvaggia. Riflessiva e tranquilla, amava divertirsi, ma i suoi giochi avevano bisogno di pace e dei colori del ccrepuscolo, quando anche con le ombre si può scherzare; o del buio vellutato della notte, quando basta un respiro a incrinare il silenzio.

Era un fatto, insomma, che Ninella e il maestrale avessero indoli opposte e, per quanto affascinata (in fondo in fondo), lei non lo avrebbe mai invitato al proprio compleanno.

Del resto, anche sette anni prima, l’ingombrante figlio di Eolo si era presentato inatteso, recando un dono di cui la fanciulla avrebbe fatto volentieri a meno.

Da allora, ogni anno, Ninella aveva aspettative maggiori per la sua festa, aspettative che non erano state mai tradite.

La sua popolarità era in aumento costante tra i villeggianti che, in estate, frequentavano la zona, sempre più numerosi e ansiosi di incontrarla. Così, ogni anno, lei indossava la sua veste più bella prima di andare a passeggiare in spiaggia o sui sentieri, generalmente nelle ore più fresche della sera, e salutava gentilmente tutti quelli che incontrava, con un sorriso radioso.

E non di rado si sentiva gratificata dagli sguardi estasiati di uomini e donne, più o meno conosciuti, che, fissandola, ammutolivano, o le dicevano quanto fosse bella.

La parte migliore della giornata, però, era la notte del giorno del suo compleanno, quando poteva dare libero sfogo alle sue birichinate.

Erano le ore in cui si introduceva nelle case, facendo apposta quel poco di rumore che basta a guastare il sonno, distillando il dubbio come un brivido nel dormiveglia.

A volte si muoveva veloce come una sensazione, tanto da non essere colta appieno, nella fredda luce lunare.

A volte si faceva vedere, quando capiva che, al risveglio, avrebbero pensato di averla sognata.

A volte si divertiva a fare colpo sugli innamorati, seduti sotto ai pini a guardarsi le stelle riflesse negli occhi. In quei casi lì, non di rado, doveva impegnarsi parecchio per essere notata, prima che le due metà si separassero temporaneamente.

Ma quel compleanno avrebbe interrotto la serie in crescendo, per colpa del maestrale.

Non era giusto per niente.

Quel vento impertinente aveva un sacco di giorni dell’anno per divertirsi, in un sacco di posti, perché era capitato proprio qui, e proprio adesso, nel posto della sua festa di compleanno?

A Ninella venne quasi da piangere.

Posò i piedi nudi sul pavimento, godendo la freschezza della pietra, poi si alzò e avanzò fino alla finestra. I vetri vibravano addirittura sotto la spinta di monsieur Mistral, come lo chiamavano in Francia. E anche lei lo chiamò così, per canzonarlo: “Monsieur Mistral, Monsieur Mistral” E intanto faceva buffe smorfie e riverenze.

E monsieur Mistral, le rispose.

La finestra, d’un tratto, si spalancò, e un respiro potente che sapeva di resina e sale, invase tutta la casa. Ninella fu sollevata da terra, come portata in palmo di mano da un gigante, e posata, con insperata dolcezza, a sedere sul letto. Una sensazione di paura piacevolissima.

“Maleducato, mettimi giù!”

“Sei già giù.” Rispose lui, chiudendo la finestra.

Accidenti, era vero. E si era anche divertita. Ma non voleva dargliela vinta.

“Non ti vergogni a comportarti così? Venire qui a rovinare anche la mia festa di compleanno, dopo quello che mi hai già combinato!”

Mistral gonfiò le gote per sbuffare, poi colse un lampo di inquietudine negli occhi di lei e decise di soprassedere.

“Ninella, te l’ho già spiegato, non è stata colpa mia…”

“No, eh? E chi è che mi ha spinto in acqua, sette anni fa? Tu sei sempre stato materiale e violento e io avevo solo cinque anni!”

Mistral cercò di addolcire il più possibile il tono della sua voce: “Ninella, te l’ho detto, io sono stato solo uno strumento dell’Ammiraglio, è lui che decide, è lui che mi ha detto di consegnarti quel dono.”

“Quel dono lì va bene per i vecchietti centenari, non per una bambina.” Protestò lei, mettendo il broncio.

Mistral, se avesse potuto, avrebbe allargato le braccia in un gesto di contrita impotenza.

Ninella approfittò della situazione e gli si fece sotto, con le mani sui fianchi: “ E adesso sei tornato a rovinarmi un altro compleanno!”

Era pronta a dirgliene quattro, o a rintuzzare una reazione rabbiosa, rimase perciò spiazzata quando le parve di cogliere il germoglio di un sorriso, ma si riprese subito e lo ammonì con l’indice alzato.

“Brutto ventaccio cafone e indisponente! Non c’è proprio niente da ridere, sai? Quando arrivi tu, io non posso più giocare, rovini sempre tutto!”

Lui rispose con una irritante ironia: “Le apparizioni sulla spiaggia al crepuscolo?”

“Bé? Sono bellissime Ho sempre una veste leggera e meravigliosa che fluttua nell’aria . Quest’anno è azzurra, e per colpa tua non la potrò indossare!”

“Oh, certo, bellissime, come no! Poi magari una scappata in pineta a fare l’ectoplasma peri i pomicioni…”

Ninella batté il piede per terra, fuori di sé: “Non si dice pomicioni! Si dice innamorati!”

“Una cosa non esclude l’altra. -Fu la filosofica risposta del vento- E poi, di notte, a far visita ai turisti nelle case.”

“Sì, e allora? Io mi diverto e sono famosa più di te, ti secca? “ E tirò fuori un palmo di lingua a sottolineare la superiorità.

Mistral la guardò negli occhi lampeggianti, e il suo sorriso si allargò ancora di più.

“Sono giochi da bambini questi. Non sei stanca del tuo piccolo mondo? Spiaggia, pineta, casette, non hai voglia di andare un po’ più in là?”

“Ti ricordo che in questo “piccolo mondo” mi ci hai costretta tu; ancora di più adesso che, se io uscissi, sarei sballottata da tutte le parti dalle tue corse frenetiche; e comunque, di questo piccolo mondo, io sono la principessa, e sarei felice se tu abbandonassi il mio regno.”

“No, principessa –rispose Mistral- tu non saresti felice quanto lo sarai con me, nella tua magnifica veste candida.”

“Azzurra. Ti ho detto che quest’anno ho scelto l’azzurro.”

“Oh, maestà, l’azzurro ci sarà, non dubitare, e sarà moltissimo.”

Le si avvicinò e l’abbracciò. Si spalancò la finestra e Ninella volò sempre più in alto, cavalcando la schiena di Mistral.

Anche il vento pensava che la morte non fosse un dono adatto a una bambina, ma chi era lui per pretendere di sondare l’imperscrutabile? Era solo aria smossa.

Smossa ben bene, però! Si impennò con orgoglio, spazzolando i pini marittimi e planando sul mare; il cielo era lustro da far male agli occhi e le creste delle onde si inseguivano correndo finché Mistral non si divertiva a spianarle, ricamando merletti di spruzzi.

Tutto questo spettacolo sembrava dedicato ai due soli spettatori fermi a guardare, mano nella mano,

a rispettosa distanza dal tumulto liquido.

A un tratto, il braccio della figura più piccola si alzò a indicare qualcosa.

“Guarda, mamma, guarda lassù, c’è una nuvola sola, tutta bianca, sembra una bambina. Guarda come corre!”

“E’ vero. E’ una bellissima bambina che vola sulle ali del vento, guarda come ride!”

“Come si chiama, mamma?”

“E chi lo sa? Forse è lei Ninella.”

 

 

 

 

3° CLASSIFICATO – LA MADONNA DELLE CONCHIGLIE, Valentina Meloni di Castiglion del Lago (Pg).

Il primo ad arrivare fu l’ospite meno atteso. Il maestrale si presentò con un giorno di anticipo, senza preavviso e senza regalo. Ninella lo aveva sentito dal letto ed era rimasta immobile, attonita. Un po’ come quando ti svegli e senti che ti è venuta la febbre.

Quel vento insistente che entrava dalle persiane accostate la immalinconiva. Il corpo di Ninella era quello di una donna del sud, nel pieno della maturità sessuale ed emotiva, arrotondato da curve mediterranee: i fianchi larghi e forti, pronti a una gravidanza che non era mai arrivata, come non era mai arrivato, del resto, alcun uomo che fosse riuscito a condurla verso il suo desiderio di maternità.

Stesa nel letto di ferro antico, gli occhi chiusi, i piedi avvolti nella coperta di pizzo, ascoltava i richiami provenienti dal mare, quel mare che l’aveva vista bambina e che la festeggiava ancora, ogni giorno, con la naturalezza con cui l’aveva accolta alla nascita durante quel pomeriggio di giugno in cui Netta, sua madre, si era trovata a partorire sulla spiaggia, mentre era in cerca di conchiglie per i suoi gioielli.

La donna partorì da sola, tra la spuma della marea che saliva e che battezzò Ninella, ancora avvolta di vernice caseosa, in un’onda calda come un abbraccio.

Da sola, sembrava, pure, che l’avesse concepita.

Nessuno, infatti, aveva mai visto Netta con un uomo, sebbene la donna fosse corteggiata da molti ragazzi. La sua verginità aveva superato, in fama, persino la sua bellezza.

Così, quando nacque Ninella, ben nascosta fino ad allora da fianchi larghi e da gonne ampie, la donna non disse nulla e i più accettarono il fatto che quella bambina irta di riccioli neri l’avesse portata il mare.

Netta, appena la vide, avvolta dalla marea e dalla sabbia, la chiamò istintivamente Ninella ricordando la canzone che le cantava il nonno mentre la portava con sé a pesca tra le onde: “Oh, quantu è beddu lu nume di Nina, ca sempre Ninella vurrissi chiamari, l’acqua ccu cui ti lavi la matina, Bedda, ti pregu non la ettari: ca si la jetti ni nasci ‘na spina, nasci ‘na rosa russa ppi curari, li medici ni fannu midicna, la dannu alli malati ppi sanari”.

Netta, era il soprannome di Ninetta, a sua volta diminutivo di Antonietta, ma tutti quanti, da che il nonno paterno aveva iniziato a chiamarla così, la omaggiarono di quel nuovo battesimo.

Ninella era la rosa nata per curare, questo pensava Netta mentre, prendendo al seno la bambina, che non aveva urlato o lanciato un solo gemito, la vide calma con gli occhi ben aperti e meravigliati sui suoi.

Ninella aprì gli occhi e la prima cosa che vide fu la collana di conchiglie di sua madre, posata sul comodino. Gliel’aveva messa al collo lei quando aveva ancora pochi mesi, infilando le conchiglie che aveva raccolto il giorno della sua nascita.

Quelle conchiglie, quel mare, quella collana non l’avevano mai abbandonata, come non l’aveva mai abbandonata il ricordo di sua madre.

Netta l’aveva cresciuta da sola tra molte difficoltà, dopo essere stata ripudiata dalla sua famiglia per motivi d’onore.

I suoi genitori e, soprattutto suo fratello, che voleva lavare nel sangue quel disonore, usarono ogni mezzo per cercare di conoscere il nome del padre della bambina.

Non ci fu modo.

Netta portò con sé quel segreto fino alla morte e la gente semplice e buona, che aveva accolto Ninella come un dono del cielo, cercò di aiutarla con ogni mezzo, portandole ogni giorno un po’ di cibo, comprando le sue collane e i suoi rosari di conchiglie. Non avevano cuore di lasciare sola quella che, per molti, era la Madonnina di Cinisi.

Se per alcuni Netta era una sorta di vergine moderna, moltissimi la consideravano, invece, una poco di buono.

Quando andava al mercato, per vendere rosari, la gente del paese non si faceva scrupoli a sferrare un buttana detto a mezza bocca o a guardarla dritta negli occhi lanciando nell’aria parole e sguardi di disprezzo.

Soprattutto le donne e le vecchie di paese.

Netta non si dava pace: era una donna come loro e come loro aveva subito l’imposizione maschile, non solo nel nome, ma anche e soprattutto nelle condizioni di vita.

Il fratello, Damiano, dopo la morte dei genitori, aveva ereditato tutto per volere della madre che non aveva intenzione di lasciare nulla alla figlia sciagurata ma che, desiderando salvare le apparenze cristiane, si era raccomandata di badare a sua sorella, senza però menzionare la nipote.

Mianu, come veniva chiamato in casa, ancora offeso nell’onore, si era guardato bene dal salvare le apparenze, aveva lasciato Netta senza aiuti di alcun tipo, in attesa di un pentimento o di scuse che non arrivarono mai.

Netta aveva avuto Ninella e questo le bastava, non voleva l’aiuto o l’elemosina di chi l’aveva ripudiata e fece qualsiasi cosa per crescere la figlia con dignità, senza mai farle mancare affetto.

Si ricordava del nonno Cecè  che l’aveva cresciuta a aringhe e canzoni, e che, sotto la scorza da marinaio, nascondeva un animo buono e lungimirante.

Lui era la sua famiglia e nel nome di sua figlia aveva voluto racchiudere un po’ di quel calore.

Ninella aveva perso la madre nel giorno del suo dodicesimo compleanno. Il mare che le aveva dato la vita, le tolse l’affetto più grande che possedesse, restituendole un corpo senza vita.

Nessuno ha mai saputo come fosse accaduto il fatto.

Qualcuno ipotizzò che il mare avesse voluto lavare l’onore della famiglia, ma Ninella pensò che il mare non avesse alcuna colpa se non quella di aver cullato il corpo della madre, tra le onde, per un giorno intero, durante la tempesta.

Netta aveva sul collo dei segni viola e il girocollo di minuscole conchiglie di bombolino, non c’era più. Questi indizi non furono sufficienti ad aprire un’inchiesta e il caso fu archiviato senza che nessuno, neppure Mianu, avesse levato alcuna voce di protesta.

La bambina era rimasta da sola in casa aspettando che la madre tornasse con un regalo per il suo compleanno, ma quando si fece sera cominciò ad avere paura e si decise a chiedere aiuto ai pescatori, pensando che la madre fosse ancora nei pressi della spiaggia. I pescatori si passarono la voce, erano stati compagni dello stimatissimo Cecè, ma a causa della tempesta, rinunciarono a uscire in mare e sospesero le ricerche.

Ninella rimase a dormire a casa di una vecchina che la accudiva come fosse sua nonna. Carmelina l’aveva tenuta molte volte durante le assenze di Netta, quando andava al lavoro o a vendere i rosari.

Le preparava cassatelle e scorze d’arancia “accilippate”, le voleva bene come e più di una nipote, le insegnava a pregare, le raccontava le storie del mare.

Quella sera le aveva dato un panierino di cassatelle per farle passare la paura, e le aveva detto: “Vedrai che Netta tornerà, bella come Venere che sorge dal mare e ti porterà un dono.”

Neppure Carmelina credeva davvero alle bugie che raccontava alla carusa per non farla piangere, dentro di sé aveva un brutto presentimento e, dopo aver messo a letto Ninella, passò la notte in preghiera chiedendo alla Madonna delle conchiglie che parlasse al cuore dell’uomo che la voleva morta.

Quando, al mattino, sentì bussare alla porta, era ancora sveglia. Stringeva tra le mani il rosario di conchiglie e pregava.

Aprì la porta e vide Mianu, vestito di nero: strattonò il filo del rosario che si ruppe. Le conchiglie caddero sul pavimento disperdendosi nella stanza.

La donna non disse una parola mentre l’uomo raccontava che Netta era tornata dal mare morta.

L’istinto protettivo fu più forte della rabbia e dopo un primo momento di smarrimento, si alzò, poggiando le mani deformate sul tavolo e disse con occhi fiammeggianti: “La carusa è stata affidata ammia, penserò io a edda”.

L’uomo, intuendo cosa passasse nella testa della donna, non provò neppure a opporsi, se ne andò e non conobbe mai la nipote.

Nei giorni seguenti fece arrivare a casa di Carmelina un telegramma in cui dichiarava che avrebbe assolto ai suoi obblighi familiari, inviando, ogni mese, una somma di denaro, sufficiente a coprire le spese di mantenimento e istruzione, più una piccola rendita per il futuro della bambina.

Ninella, rimasta sola nel letto di Carmelina, si preparava a festeggiare quel drammatico anniversario, alla soglia dei quarant’anni, quando fu richiamata alla realtà da una voce.

La voce, al di là delle finestre, non era solo quella del maestrale: stava accadendo qualcosa.

Si vestì alla svelta e si diresse verso la spiaggia. Un uomo in condizioni disumane, bagnato e zoppicante, le veniva incontro tenendo in braccio un fagotto. Ninella lo strinse subito a sé e lo portò in casa.

Era un miracolo che la bambina fosse ancora viva dopo quel viaggio disperato sui barconi della morte. L’uomo le fece intendere, a gesti, che non era sua figlia: la madre della piccola era annegata e lui l’aveva salvata dal naufragio.

Ninella avvicinò la piccola al seno, i suoi occhi erano due biglie nere di corallo grandi e meravigliose.

Dal centro di tutto il suo essere sgorgò un canto: Oh, quantu è beddu lu nume di Nina, ca sempre Nina vurrissi chiamari…

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